lunedì 26 maggio 2008

CREMAZIONE

1. NATURA — La cremazione è la violenta distruzione del cadavere umano per mezzo del fuoco o di grande calore. Praticamente è sempre accompagnata da un rito funerario, il quale, però, non è ne­cessariamente un rito religioso. Può avere un carattere civile e profano. Bisogna di­stinguere la cremazione propriamente detta, usata cioè nei casi comuni, e la cremazione che è una mi­sura igienica straordinaria e necessaria per circostanze speciali (guerra, peste), per evi­tare pericoli imminenti, che non possono essere eliminati mediante l’inumazione.

2. CENNI STORICI — La cremazione in una forma molto semplice e rozza (p. es. il rogo) fu in uso presso alcuni popoli pagani, p. es. quelli che prima dei Canaaniti abitavano nella Palestina. Dei Caldei, dei Medi e Per­siani, dei Greci e dei Romani si può dire che accanto all’inumazione quale pratica più comune e più stabile, si praticava ta­lora anche la cremazione, la quale però non fu mai di uso comune e spesso fu combattuta e riprovata. Il popolo Ebraico e poi i Cri­stiani hanno sempre rigettato la cremazione come indegna e non conveniente con la riverenza dovuta al corpo umano. Alla fine del sec. XIII un movimento di alcuni gruppi di cristiani che volevano praticare un tipo di cremazione speciale, fu facilmente spento dal papa Bonifacio VIII. Tentativi, anche nella legislazione civile, durante la Rivoluzione Francese, non eb­bero nessun effetto permanente. Successo più durevole, benché assai limitato, ebbe l’azione delle società massoniche ed anticat­toliche, iniziata circa il 1870, prima in Italia. Tale azione aveva un indirizzo anticristiano, ed i massoni speravano di combattere in tal modo la fede nella risurrezione dei corpi. Forni crematori furono costruiti in Padova (1872), poi in molti altri paesi in Europa e negli Stati Uniti. Le legislazioni civili, che fin allora non ammettevano se non la inumazione, furono cambiate, e così anche la cremazione divenne un atto legalmente riconosciuto. Però, nonostante la propaganda, la grande massa del popolo, anche non cristiano, ha sempre respinto la cremazione. Il nu­mero dei corpi cremati è relativamente molto piccolo.

3. MORALITÀ — La Chiesa cattolica è con­traria alla cremazione e la sua autorità suprema ha vietato espressamente le seguenti azioni: a) cremare una salma; b) formalmente coope­rare alla cremazione (v. Cooperazione); c) dare ordine che il proprio corpo o quello di un altro sia cremato; d) far parte di una società, i membri della quale si impegnano a far cremare il corpo proprio e quello delle persone di cui possono disporre; e) dare l’assoluzione sacramentale ad una persona che ha ordinato che il suo corpo sia cremato e che non vuole revocare tale ordine; dare a questa stessa persona, dopo la morte, la sepoltura eccle­siastica (S.C.S. Off. 1886 e can. 1203, 1240 § 1 n. 5, e 2339).

La ragione per la quale la Chiesa si op­pone alla cremazione non è perché essa sia in con­trasto con un dogma della fede cattolica. La risurrezione non è più difficile dopo la cremazione che dopo la corruzione naturale tota­le del corpo sepolto. I massoni ed altri se­dicenti illuminati nemici della fede hanno non di rado, anche in questo punto, idee puerili riguardo alla dottrina cattolica. La Chiesa cattolica condanna la cremazione, prima di tutto perché essa è contraria all’antichis­sima tradizione cristiana ed umana, all’uso antico quanto lo stesso genere umano, e radicato nei giusti sentimenti di riverenza per il corpo umano, organo dell’anima san­tificata dalla grazia e dalla vita divina; tempio dello Spirito Santo. Sappiamo bene che di per sè e per il corpo la cremazione non è più nociva e più ripugnante che la corruzione naturale, ma per noi la riverenza chiede che il corpo sia lasciato intatto: che non sia distrutto violentemente, ma deposto pia­mente nella terra, come seme che un giorno risusciterà a nuova vita. La sepoltura non soltanto è più adatta alla liturgia tradi­zionale della Chiesa, ma a qualsiasi rito funerario che vuole esprimere ed inculcare ai circostanti i grandi misteri della morte cristiana e della vita dopo la morte. Un motivo secondario e passeggero del divieto ecclesiastico era ed è ancora (benché ades­so un po’ meno) la tendenza anticristiana dei propugnatori della cremazione. Bruciare un corpo non è dunque un atto cattivo per intima natura, ma è anche falso dire che si tratta di una pura legge positiva. La Chiesa in­fatti non cambierà la sua posizione riguar­do alla cremazione. Da ciò che abbiamo esposto di­venta altresì chiaro, che non è proibito bru­ciare i corpi umani, quando in circostanze straordinarie (p. es. epidemia) questo sia il mezzo necessario per evitare pericoli o per combattere l’epidemia stessa.


P. Ludovico Bender, O. P.
Professore nella Facoltà giuridica del pontificio Ateneo Angelicum di Roma


BIBLIOGRAFIA — Incinératton, in Dictionnaire apologétique de la foi catholique, di A. D’ALÈS, Paris 1911-1928; E. RIGHI-LAMBERTINI, De vetita cadaverum crematione, Venegono Inferiore 1948.

domenica 25 maggio 2008

EBRAISMO (fuori dalla tradizione cri­stiana)

1. PREMESSA. - Il popolo ebraico, che era stato veicolo della Rivelazione, quando questa si presentò nella sua pie­nezza con Cristo e gli apostoli, la rigettò, almeno nel maggior numero dei suoi com­ponenti, e si pose fuori della Chiesa, pur continuando una sua vita religiosa con un proprio culto, proprie credenze e una pro­pria morale.
Riecheggia qui molto del Vecchio Testa­mento, ma l’orientamento generale è diven­tato anacronistico, perché mentre la Chiesa è tutta rivolta a colui che è venuto a redi­mere e a salvare, l’ebraismo è proteso in un’at­tesa che non può essere che vana ed, al­meno nella realtà oggettiva, blasfema.

2. CULTO - La parola abhodah, che stava ad indicare l’azione liturgica in forma di culto sacrificale cruento passa, dopo la ca­duta del tempio di Gerusalemme, a signi­ficare preghiera. La vittima viene offerta in dono per ottenere la riconciliazione con Dio; nelle preghiere e nelle opere di carità l’uomo si dona, si offre. Il servire Iddio con tutto il cuore (Deut. 11, 13) si riferisce — così i dottori palestinesi — alla preghiera, il che vale anche per Osea (14, 3): «Perdona ogni iniquità e accetta la parola (e non “bene”) e noi vogliamo reintegrare (i rab­bini interpretano pagare = pacare) i gio­venchi con le nostre labbra».
All’imbrunire e per tutta la notte si teme­vano i dèmoni, ma i dottori insistevano fosse ricordato ogni sera l’esodo dall’Egitto, cioè l’opera protettrice e salvifica di Dio. Ecco il significato che i dottori volevano fosse attribuito ai filatterii sul braccio e sulla fronte e ai rotoli di pergamena appli­cati sugli stipiti delle porte che l’Oriente semitico considerava sede preferita dei geni malefici.

3. CREDENZE - L’idea della legge rivelata richiama di continuo alla mente il Legi­slatore, Dio santo e trascendente. Senza accettare l’idea di ipostasi, l’ebraismo post-biblico considera Iddio personificazione della Sa­pienza e del Verbo (Logos, memrâ), sebbene in un senso ben differente da quello cri­stiano. Ogni uomo adulto in Israele recita mattina e sera lo Ascolta (Deut. 6, 4-9; 11, 13-21; Num. 15, 37-41), il Credo del­l’unità assoluta di Dio. Prima e dopo lo Ascolta vengono dette talune benedizioni. Dopo la recita si ripete un brano liturgico (È vero e saldo) che conferma il contenuto del testo fondamentale.
Le Diciotto Benedizioni trattano di Dio come Dio dei patriarchi, di Dio che dona la pioggia e fa risorgere i morti; Dio san­to, datore della conoscenza interiore della verità, potere discriminativo tra bene e male; Dio datore dei prodotti della terra; da lui si invoca pure la conversione di quelli che sono lontani dalla fede di Dio e la grazia di far convergere i fedeli tutti dispersi sul suolo sacro. Le ultime bene­dizioni invocano pane e offrono lodi al Signore.
Israele si considera popolo eletto ed in rapporto di alleanza con Dio ossia popolo che il Signore protegge. Ad Israele il Si­gnore ha affidato una missione sacerdotale fra i popoli. Il Messia è il re unto da Dio stesso e che apporterà salvezza ad Israele, giustizia e salvezza al mondo intero.

4. MORALE - La vita dell’uomo in Israele si compone, naturalmente, di opere buone e di peccati, meriti e demeriti, e ogni uomo, e non solo il popolo come collettività, sarà giudicato da Dio. Si riconosce il principio della fragilità umana, ma non quello del peccato originale. Con l’aiuto della Legge l’uomo deve lottare contro il male, benché egli dipenda in tutto da Dio. Lo studio della Legge allontana l’uomo dal peccato e gli schiude la via verso la santità.
A base della morale sta il Decalogo. La morale conserva un carattere religioso e le­gale. La regola d’oro suona: Non fare ad altri quanto vorresti a te non fosse fatto, ossia si preferisce la forma negativa a quella positiva. La vita va considerata come posta al servizio di Dio per amore e non già per interesse. L’uomo deve conservare un certo rispetto per se stesso, deve invocare da Dio il perdono dei peccati, osservare le feste, i digiuni e le pratiche espiatorie senza pur tuttavia darsi al soverchio ascetismo e senza amore per il dolore e le sofferenze. Si dà molto peso ad una vita familiare limpida e basata sul reciproco rispetto ed affetto; lo stato di verginità non viene apprezzato. Il vincolo coniugale è solubile attraverso libera consegna ed accettazione del libello di ripudio dinanzi al tribunale rabbinico. Al dovere di amare Iddio viene associato quello di amare il correligionario, ma anche lo straniero in memoria del fatto che stra­nieri foste nella terra d’Egitto e così cono­scete l’animo dello straniero. Il dovere della giustizia e della carità vige in confronto di chiunque. La carità vale per il suo conte­nuto di bontà.

5. MISTICA - In quanto alla vita mistica, non si presuppone lo stato d’estasi, l’ina­bissarsi dell’uomo in Dio. Le dottrine mi­stiche si basavano sul concetto del cocchio di Dio presso Ezechiele, sulla visione celeste di Isaia che ode il trisaghion; del resto si tratta di vita religiosa interiore. La letteratura mistica riguarda inoltre l’opera della creazione da parte di Dio e l’uomo pree­sistente, esponente delle dieci sefiroth e il mistero del nome di Dio. La preghiera ha per scopo di creare un vincolo d’unione tra l’orante e Dio. L’amore di Dio implica la prontezza di dare la vita per così santi­ficare il nome di Dio. La letteratura cab­balistica, dal punto di vista storico-letterario, va considerata un prodotto medioevale, ma la dottrina come tale risale nei suoi elementi costitutivi ai tempi del sorgere del cristia­nesimo. L’opera principale ne è lo Zohar (Splendore). Il pietismo, hassidismo, rap­presenta il rifiorire del cabbalismo in tempi a noi più vicini.
La celebrazione delle principali feste e del sabato è ricca di elementi mistici fram­misti ad elementi angelologici.

6. RILIEVI CRITICI - Più che la morale nell’ebraismo è il culto e il dogma che costituiscono offesa a Dio, perché in ciò che hanno di diverso dal cristianesimo si basano sul ri­fiuto di ascoltare la sua voce, che si è fatta udire con più alta risonanza nella pienezza dei tempi (cfr. Giov. 1, 1 ss.). Di conseguenza gli atti di culto ebraico costituiscono atti contrari alla virtù della religione, perché onorano Dio con culto ormai falsato dagli avvenimenti e la morale è restata imperfetta per non aver accolto l’integrazione ed il perfezionamento portato da Cristo.


Prof. Eugenio Zolli
Già Incaricato di Ebraico e di Lingue Semitiche comparate nell’Università di Rroma.


BIBLIOGRAFIA – A. VINCENT, Le judaïsme, Strasbourg 1932; J. BONSIRVEN, Le judaïsme palestinien, I, Paris 1934 e II, Paris 1935 (versione italiana) ; L. BOUYER, La Bible et l’Evangile, Paris 1951.

sabato 24 maggio 2008

ECUMENISMO

1. NOZIONE. - Sotto questo nome di ecumenismo o movimento ecumenico si suole indicare la teoria escogitata dai movimenti interconfessionali, specie prote­stanti, per raggiungere l’unione delle chiese cristiane, a base di una specie di confede­razione.

2. ORIGINE DEL MOVIMENTO. - Su due miliardi e 400 milioni di uomini, i cristiani sono sui 749 milioni, di cui 425 milioni cat­tolici, 176 milioni protestanti, e 128 milioni ortodossi. Quasi la metà quindi dei cristiani, cioè di coloro, che considerano Cristo come fondatore, stanno fuori della Chiesa cattoli­ca romana.
Le unioni con la chiesa greco-ortodossa tentate nei Concili di Lione e di Firenze nel 1274 e nel 1439 furono effimere.
Nel 1910 i missionari protestanti si erano adunati ad Edimburgo per trovare il modo di non ostacolarsi a vicenda nelle missioni. Charles Brent propose di estendere a tutti i cristiani l’invito all’unione e si fece pro­motore di questo movimento nelle confe­renze di Ginevra del 1920 (Faith and Order), di Losanna (1927), di Edimburgo (1937).
Un secondo movimento, diretto da Söder­blom, vescovo luterano di Upsala (Work and Life), fiancheggiò il primo.
I due movimenti si unirono dopo la guerra e tennero le assemblee di Amsterdam (ago­sto-settembre 1948), dove fu costituito il consiglio delle chiese con sede a Ginevra e di Evanston (ottobre 1954).
I protestanti ebbero l’adesione degli orto­dossi, il cui pensiero è stato raccolto nel vo­lume Il problema ecumenico nella coscienza ortodossa, pubblicato dall’YMCA di Parigi.

3. ECUMENISMO E CHIESA CATTOLICA. - La Chiesa cattolica, cosciente di essere la vera Chiesa di Cristo non può prendere parte ad un movimento che va in cerca di questa Chiesa, pur non cessando di pregare per l’unità.
Di fronte però ai tentativi di alcuni cat­tolici, ansiosi di un accordo e di fronte al­l’opinione pubblica mondiale, la Chiesa cat­tolica ha chiarito in vari documenti il suo atteggiamento sull’unione, dottrinalmente soprattutto nelle encicliche Orientalium ani­mos del S. P. Pio XI (6 gennaio 1928) e Orientales omnes Ecclesias del S. P. Pio XII (23 dicembre 1945); disciplinarmente soprat­tutto nella risposta del 5 giugno 1948 (v. Comunicazione con gli acattolici, in sacris) e nell’Istruzione del S. Uffizio del 20 dicem­bre 1949.
Le norme da seguire per questa attività unionistica vengono così precisate: possono essere permesse dagli Ordinari conferenze tra cattolici e non cattolici nelle proprie diocesi. Per conferenze interdiocesane ed internazionali la competenza è riservata al S. Uffizio. La gerarchia ha il diritto e il dovere di vigilare, perché l’unica via regia per l’unione è l’adesione dei non cattolici alla vera Chiesa; le altre formule presen­tano gravi pericoli per i cattolici stessi, e concettualmente si riducono spesso a for­mule ecumeniste, vuote di significato. La rivista che nella Chiesa cattolica promuove i problemi dell’unione è la rivista Unitas.


Mons. Pietro Palazzini
Sottosegretario della S. Congregazione dei Religiosi
Professore di Teologia Morale nel Pontificio Ateneo Lateranense di Roma


BIBLIOGRAFIA — W. A. VASIER - T. HOOFT, Le pro­testantisme et le problème oecuménique, in Oecu­menica, 2 (1925) 231-244; N. BERDJAEV, L’oecu­ménisme et le confessionalisme: foi et vie, Paris 1931; C. BOYER, Le problème de la riunion des chrétiens, in Unitas, 2 (1947) 310-338; Id., La Chiesa e il movimento ecumenico, in Ulisse, a. 8, vol. 4 (1954) 189 ss.

venerdì 23 maggio 2008

GUERRA

1. NOZIONE. — Ogni diritto è coercibile. Perciò ogni Stato ha il diritto di usare la forza fisica necessaria per soste­nere (difendere, ottenere la riparazione dopo la violazione compiuta) i propri di­ritti nei confronti di altri Stati. E siccome non si è ancora riusciti ad avere una istanza superiore a tutti gli Stati del mondo, con una autorità alla quale tutti si sottomet­tano e con una forza fisica talmente supe­riore a quella dei singoli Stati da costrin­gerli facilmente ad osservare ciò che essa dichiara giusto, questo diritto di coerci­bilità non può essere esercitato se non di­rettamente dagli Stati stessi, per sostenere i propri diritti contro i violatori. L’uso di questo diritto chiamiamo la guerra.
Ne segue che di per sé la guerra non è con­tro la morale. È un atto di giustizia, pro­prio come la difesa del diritto e la puni­zione del delinquente.
Però, perché la guerra sia giusta in un caso concreto, è richiesto che si verifichino al­cune condizioni. Esiste dunque una morale della guerra che qui deve essere illustrata.

2. ERRORI CIRCA LA GUERRA — Notiamo innanzitutto che è un grave errore, predicato dai fautori del totalitarismo statale, che la guerra sia una cosa necessaria per lo sviluppo nor­male della vita umana. La guerra è necessaria soltanto quando altri commettono ingiurie e non si trovano altri mezzi per rimediare a questo male. Siccome l’ingiuria non è una cosa necessaria ed inevitabile, così non lo è neanche la guerra. Se però un popolo non intende rispettare i diritti di altri popoli, e a comprimerne le violazioni gravi non ba­stano più atti di ritorsione, allora la guerra è lecita, essendo essa in un tal caso l’unico mezzo per far rispettare il diritto.
Un grande sbaglio commettono i pacifisti esagerati (antimilitaristi, ecc.), che, come quelli dell’ultimo mezzo secolo, vogliono abolire la guerra, dichiarandola sempre illecita, sopprimere gli eserciti, e gli armamenti, senza tener conto della necessità di far ri­spettare il diritto. Bisogna cercare di eli­minare dalla vita dei popoli la guerra nello stesso modo che bisogna abolire il carcere cioè rendendoli superflui, sia perché sono sostituiti da altri mezzi per salvaguardare l’ordine giuridico, sia perché gli uomini sono divenuti così buoni che non violano più i diritti altrui e non commettono più delitti che devono essere puniti con il car­cere. Del resto, dalla Bibbia, dalla Tradi­zione e da alcuni documenti del magistero della Chiesa risulta senza dubbio che un cattolico non può ritenere che la guerra come tale è contro la legge di Dio e cattiva in se stessa.
Per proporre bene la morale della guerra bi­sogna considerare la guerra atto di una persona (un principe, un governo, un popolo). Ad una guerra prende parte più di una persona, si capisce, ma la morale non tratta se non dell’atto individuale. La guerra come cosa di più popoli, l’uno contro l’altro, può essere buona e cattiva nello stesso tempo, pro­prio perché è un atto del popolo A e un atto del popolo B. Ed ogni atto ha la sua propria moralità. La questione morale deve essere proposta così; che cosa si richiede affinché un tale atto di un dato popolo o governo, quale è fare la guerra contro uno o più altri popoli, sia un atto moralmente buono?

3. DOTTRINA CATTOLICA — La dottrina cattolica riguardo alla guerra è molto antica e veneranda. È ottimamente proposta da Sant’Agostino e chiaramente elaborata da San Tommaso. Affinché sia lecita la guerra, è ri­chiesto: a) che sia fatta dalla persona che legittimamente ha la suprema autorità nello Stato; b) che non sia fatta per motivi per­sonali cattivi (vendetta, conquiste, ambi­zioni, ecc.) ma, c) per salvaguardare i pro­pri diritti contro il popolo che li viola o li ha violati, senza voler dare soddisfazione. Lo scopo della guerra, moralmente buona, è il mantenimento della giustizia e quindi la pace. Sembra contraddizione dire che lo scopo della guerra è la pace. Non lo è per l’uomo che sa, che non colui che dichiara la guerra disturba la pace, ma colui che ha commesso la violazione dell’ordine giuridico e così ha reso necessario che l’altro dichiari la guerra. La pace è basata sulla giustizia. Chi sconvolge la base, sconvolge l’edificio che poggia su di essa.
Queste condizioni sono le condizioni mo­rali proprie della guerra; e perciò sono contem­plate nel trattato speciale della moralità della guerra. Ci sono altre condizioni da osser­vare, le quali però sono condizioni generali richieste per qualsiasi operazione umana e specialmente per quelle che recano di per sé gravi danni. La principale condizione che qui deve essere considerata è che, es­sendo la guerra un mezzo che causa gravissimi danni a tutti i popoli che vi prendono parte e spesso anche, specialmente oggi, ad altri terzi, essa non è lecita se non per motivi gravissimi. Le persone che comin­ciano una guerra, d’altronde giusta, hanno una grandissima responsabilità, dovendo giusti­ficare i danni che ne seguono anche per i propri sudditi: propri soldati uccisi o mu­tilati o prigionieri, famiglie rovinate, città e paesi distrutti, ecc.
Mentre un certo numero di uomini, spe­cialmente nei paesi protestanti, hanno pro­pagato la dottrina che la guerra è per se stessa contro la legge di Dio (non ucciderai) e contro il Vangelo; altri, anche cattolici, hanno cominciato ad asserire che la guerra mo­derna causa danni tanto enormi, che adesso la guerra non può essere mai giustificata, neanche come mezzo per difendere qualsiasi bene o diritto.
Dopo l’ultima guerra mondiale siamo più che mai convinti della enormità dei danni che reca la guerra moderna; alla guerra batteriologica e chimica, è seguita la guerra atomica. Però, proprio l’ultima guerra ha provato che ci sono dei beni che — secondo il giudizio dei buoni ed onesti e secondo il senso comune dei popoli — sono di tanto valore che meritano di essere difesi anche a costo degli orrori e danni della guerra moderna. Più che terribili sono state in molti paesi le sofferenze ed i danni subiti da tanti uomini pacifici, spe­cialmente dalle mogli, dalle madri, dai bambini, e nondimeno praticamente tutti, pro­prio mentre soffrivano tanti mali, non vo­levano altro che continuare la lotta per i beni ideali da salvaguardare: religione, li­bertà ecc. Mai la dottrina teorica degli iper­pacifisti è così chiaramente dimostrata falsa come durante la guerra. La dottrina falsa è fon­data nella mancanza di senso della realtà. In tempo di pace i fautori dell’errore non guardano i valori grandi e sublimi che il popolo ha da salvaguardare; mentre al con­trario mettono in piena luce soltanto gli orrori della guerra. Basta che la realtà si faccia sentire e le dottrine false sono subito se­polte, finché, passata la guerra ed allontanato il pericolo prossimo di perdere i detti beni, si dà di nuovo vita alle fallaci teorie. In alcuni paesi abbiamo visto ripetersi questa triste commedia già tre o quattro volte. Molti socialisti furono antimilitaristi estremi fino al momento in cui i loro nemici, i na­zisti, cominciarono ad essere forti.
Con ciò non si deve dire che la guerra è di fatto facilmente da giustificare. Anzi la dot­trina cattolica è che la guerra (e questo vale anche della guerra moderna) può essere giusti­ficata. Ma è anche dottrina cattolica che i popoli e i governanti debbano fare tutto il possibile, compresi gravi sacrifici, per evi­tare ogni guerra. Adesso siamo più che mai lontani dalla situazione richiesta per elimi­nare la guerra. Sono condizioni indispensabili a questo scopo: la reciproca fiducia, il sin­cero rispetto per la giustizia e i diritti di tutti i popoli anche i più piccoli e deboli, il rispetto per la parola data e per i trattati conclusi; fede, amore e salutare timore di Dio. Non basta la migliore volontà di evi­tare la guerra, quando il pericolo è prossimo. Bisogna educare i popoli ad una vita na­zionale ed internazionale, che renda inu­tile la guerra.

4. DIRITTO INTERNAZIONALE SULLA GUERRA — La morale insegna anche che nella guerra, giusta­mente dichiarata, non tutto è lecito per vin­cere o vincere più presto. Anche i bellige­ranti di ogni grado hanno l’obbligo severo di non recare a qualsiasi persona, anche al nemico, danni inutili. Inoltre mai è lecito uccidere o mutilare persone non colpevoli; p. es., per punire un delitto, commesso da persone sconosciute, o per spaventare la po­polazione di un paese nemico e, tenerla calma. C’è anche l’obbligo di rendere meno dannosa e crudele la guerra, creando per mezzo di trattati internazionali un diritto della guerra sul trattamento dei feriti, prigionieri, per­sone civili, sull’uso di certe armi (p. es. i gas, la bomba atomica) e così via.
L’esperienza, però, ha provato che tutti questi trattati e queste misure perdono molto del loro valore e della loro efficacia, quando non tutti i popoli e governanti hanno lo stesso sentimento morale riguardo al ri­spetto per il diritto. Il rispetto, però, per il diritto non può essere grande dove non c’è la fede soprannaturale in Dio, supremo legislatore e supremo vindice delle ingiurie commesse dagli individui e dai popoli. Nes­suno ha lottato più fortemente, esortando, insegnando, anche indicando i mezzi effi­caci, contro la guerra quanto gli ultimi Papi, senza però mai insegnare che ogni guerra è sempre contro la morale. La Chiesa è co­lonna della verità e sa che l’errore è un mezzo immorale, ma anche inefficace.


P. Ludovico Bender, O. P.
Professore nella Facoltà giuridica del pontificio Ateneo Angelicum di Roma


BIBLIOGRAFIA — L. TAPARELLI, Saggio teoretico di diritto naturale, II4, Roma 1928, p. 176-190; G. GONELLA, Presupposti di un ordine interna­zionale, Città del Vaticano 1942.